IO, WELBY E LA MORTE
Con la
festa dell'Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di episcopato e
sto per entrare, a Dio piacendo, anche nell'ottantesimo anno di età. Pur essendo
vissuto in un periodo storico tanto travagliato (si pensi alla Seconda guerra
mondiale, al Concilio e postconcilio, al terrorismo eccetera), non posso non
guardare con gratitudine a tutti questi anni e a quanti mi hanno aiutato a
viverli con sufficiente serenità e fiducia. Tra di essi debbo annoverare anche i
medici e gli infermieri di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho
avuto bisogno per reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni
debilitanti. Di questi medici e infermieri ho sempre apprezzato la dedizione, la
competenza e lo spirito di sacrificio.
Mi rendo conto però,con qualche vergogna e imbarazzo, che non a tutti è stata
concessa la stessa prontezza e completezza nelle cure. Mentre si parla
giustamente di evitare ogni forma di "accanimento terapeutico" ,mi pare che in
Italia siamo ancora non di rado al contrario, cioè a una sorta di "negligenza
terapeutica " e di "troppo lunga attesa terapeutica". Si tratta in particolare
di quei casi in cui le persone devono attendere troppo a lungo prima di avere un
esame che pure sarebbe necessario o abbastanza urgente, oppure di altri casi in
cui le persone non vengono accolte negli ospedali per mancanza di posto o
vengono comunque trascurate. È un aspetto specifico di quella che viene talvolta
definita come "malasanità" e che segnala una discriminazione nell'accesso ai
servizi sanitari che per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso
modo.
Poiché, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il loro dovere con
grande dedizione e cortesia, si tratta perciò probabilmente di problemi di
struttura e di sistemi organizzativi. Sarebbe quindi importante trovare assetti
anche istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del mercato, che spingono
la sanità a privilegiare gli interventi medici più remunerativi e non quelli più
necessari per i pazienti, che consentano di accelerare le azioni terapeutiche
come pure l'esecuzione degli esami necessari.
Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca che hanno
attirato la nostra attenzione sulla crescente difficoltà che accompagna le
decisioni da prendere al termine di una malattia grave. Il recente caso di P.G.
Welby, che con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno
respiratorio, costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un
ventilatore automatico, senza alcuna possibilità di miglioramento, ha avuto una
particolare risonanza. Questo in particolare per l'evidente intenzione di alcune
parti politiche di esercitare una pressione in vista di una legge a favore
dell'eutanasia. Ma situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa
stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale.
La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita
pure in condizioni un tempo impensabili. Senz'altro il progresso medico è assai
positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi
sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per
non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.
È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e
astensione dall'accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si
riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la
morte; la seconda consiste nella «rinuncia ... all'utilizzo di procedure mediche
sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l'accanimento terapeutico
«non si vuole ... procurare la morte: si accetta di non poterla impedire»
(Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2.278)assumendo così ilimiti propri della
condizione umana mortale.
Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non
ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il
comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le
condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In
particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui
compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di
valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale
gravità, sono effettivamente proporzionate.
Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di
isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una concezione
del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta.
Anzi è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il
momento della morte si avvicina. Forse sarebbe più corretto parlare non di
«sospensione dei trattamenti» (e ancor meno di «staccare la spina»), ma di
limitazione dei trattamenti. Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza deve
continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando
per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche. Proprio in
questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una grande
importanza.
Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l'esigenza di elaborare una
normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto
(informato) delle cure — in quanto ritenute sproporzionate dal paziente — ,
dall'altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del
consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la
legalizzazione dell'eutanasia. Un'impresa difficile, ma non
impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese in questa
materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace
direalizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.
L'insistenza sull'accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto
impatto emotivo anche perché riguardano la grande questionedi come vivere in
modo umano la morte) non deve però lasciare nell'ombra il primo problema che ho
voluto sottolineare, anche in riferimento alla mia personale esperienza.
È soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l'insieme
della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente
terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della
vita eterna
Carlo Maria, Card. Martini