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Il mio 9 novembre al muro di Berlino 


Ricordi sparsi

No, non il 9 novembre delle celebrazioni, ma proprio il nove novembre 1989, la notte in cui un paradigma della convivenza in Europa e nel mondo crollò come un castello di sabbia. La notte in cui gli armamenti piú terribili che il mondo abbia mai visto non servirono né a difendere né ad offendere e nel giro di poche ore l’assetto dell’intero pianeta cambiò.
Era giovedí, io ed Ellen eravamo riusciti ad avere lo stesso giorno libero per mettere mano alla nostra camera da letto che andava tappezzata e imbiancata di nuovo. La sera, stanchi ma senza aver finito il lavoro, decidiamo di andare a cenare dal cinese un paio di isolati piú in lá.
Sono le nove e mezza quando torniamo a casa percorrendo la Schloßstraße ormai deserta. I materassi sono stesi in sala e, mentre ci prepariamo per andare a dormire decido di accendere la TV per vedere le notizie della ZDF delle 21,45. Sono giorni intensi, Erich Honecker è stato destituito in seguito alle fughe di massa dei cittadini della DDR attraverso la Cecoslovacchia e l’Ungheria, il parlamento è in seduta permanente da giorni ed ogni sera Günther Shabowsky, presidente dell’assemblea risponde alle domande dei giornalisti.
Accendo e non capisco subito. Quello di cui stanno parlando non rientra nel quadro che rappresenta la realtá tedesca. I cittadini orientali hanno la possibilitá da subito di recarsi nella Germania occidentale. Devo aver capito male. Cambio canale: “Sender Freies Berlin”. La voce di Berlino libera. C’è una tavola rotonda col sindaco di Berlino ovest, Walter Momper, e una serie di altri politici e giornalisti. Da dietro le quinte un personaggio si avvicina al sindaco per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Momper spalanca gli occhi come se avesse visto la strega. Si alza e, rivolto al moderatore dice qualcosa come: “Scusate, migliaia di cittadini di Berlino est stanno attraversando il muro, è necessaria la mia presenza”. Balzo in piedi e comincio a rivestirmi. Ellen si rigira e mi chiede cosa sto facendo. “Hanno aperto il muro! HANNO APERTO IL MURO!!!”
Venti minuti piú tardi sono al Checkpoint Charlie, il punto piú rappresentativo della guerra fredda a Berlino. Il 27 ottobre 1961 decine di carri armati russi e altrettanti carri armati americani erano rimasti qui ore ed ore a poche decine di metri gli uni dagli altri, i cannonieri col dito sul grilletto. Un gesto improvviso e una reazione affrettata avrebbero potuto scatenare la terza guerra mondiale.
Quando arrivo la polizia blocca giá l’incrocio Friederichstraße – Kochstraße al traffico automobilistico. Abbandono la macchina non so dove e faccio gli ultimi metri a piedi.
Oltrepasso la casamatta americana nel momento in cui una troupe televisiva militare al comando di una donna di colore in tuta mimetica stá piazzando la sua telecamera. La donna, col grado di sergente è alta almeno un metro e novanta e ha il fisico di un lottatore di wrestling. Mi vien da pensare che da sola sia in grado di stendere con un destro almeno dieci Vopos (gli agenti della famigerata Volkspolizei).
Passo oltre e calpesto la linea bianca sull’asfalto all’altezza del cartello “You are leaving the american sector”. Incredibile! Lo avessi fatto ieri i Vopos dalla torretta di osservazione avrebbero sparato! Invece niente. Ormai siamo un centinaio ad accalcarci direttamente a ridosso dell’ultima fila di blocchi di cemento del checkpoint dietro ai quali una decina di Vopos ci osservano perplessi e con l’aria della rassegnazione e dell’impotenza. Il checkpoint Charlie è riservato al passaggio dei possessori di passaporto diplomatico. Da questa parte, ad una decina di metri, la pizzeria “da Teresa”, noto covo di spie, contrabbandieri, traditori e farabutti della peggior risma. Dal checkpoint passano alla spicciolata personaggi dall’aspetto equivoco e schivo che evitano la folla che si è radunata e strisciano in fretta lungo il muro per sparire in fretta. Per un po’ non succede nulla. Cerco di guardare dall’altra parte, dietro le spalle dei Vopos, ma il checkpoint consiste in un lungo percorso a serpente fra blocchi di cemento e al momento è poco illuminato.
Poi all’improvviso succede qualcosa. Due, tre persone escono dal checkpoint agitando le braccia. È il segnale. Si alza un boato, la gente corre agitando bottiglie di spumante, ci si abbraccia, si urla, si ride e si piange. Adesso riesco anche a vedere la folla dall’altra parte dietro la sbarra bianca e rossa che aspetta impaziente di passare. Un ragazzo esce dal posto di controllo con due valigie in mano, le alza al cielo urlando Scheeeeeiiiißeeee e la folla gli risponde scandendo “Die Mauer muß weg” (il muro deve sparire). Lo stillicidio di persone che passano il posto di controllo diventa un flusso regolare e poi un fiume in piena. I Vopos vengo ritirati in sordina e al loro posto prendono posizione i militari in tuta mimetica. Qui non si fronteggiano due settori di una cittá divisa, questo è il punto di contatto piú sensibile di due imperi in guerra fra loro da trent’anni. Faccio qualche passo indietro per farmi un’idea panoramica di questo avvenimento ancora incredibile. Ai lati del piazzale ormai è presente una folla che, a differenza delle “prime file”, osserva ammutolita e incredula quello che sta succedendo. A convivere col muro ci si abitua, come ci si abitua all’idea di avere un cancro mortale. Poi, dopo trent’anni, all’improvviso ti dicono che Dio o uno dei suoi Santi ha avuto misericordia di te e il cancro è sparito. Ecco, questo è il clima qui, al checkpoint Charlie la notte fra il nove e il dieci novembre 1989…

Sono passati pochi mesi, ho cambiato lavoro e aspetto davanti a casa mia Giorgio che passa a prendermi in macchina. Giorgio si chiama in realtá Djordje ed è jugoslavo della Dalmazia. Sua nonna era italiana, ma è rimasta di lá dalla cortina dopo la fine della guerra. Per questo Giorgio parla ancora un po’ di italiano. Percorriamo poche centinaia di metri e ci fermiamo a raccogliere Ronnie, il nostro collega tedesco. Ronnie è un collega un po’ speciale. Di giorno viene a lavorare con noi e la sera rientra in carcere dove sta scontando una pena per reati come vandalismo, oltraggio, danni fisici. Ronnie ha una grossa croce uncinata tatuata sulla caviglia ed è quello che qui chiamano un “schwerer Jung” un giovane pesante, difficile, brutale. Un duro. E un nazista. A vederlo non si direbbe. È giovane, il viso glabro, gli occhi azzurri e limpidissimi, i modi gentili, riservati, quasi timido.
Ieri il cancelliere Kohl ha presentato il suo piano per la riunione delle due Germanie in dieci punti. I francesi tacciono, gli inglesi sono apertamente contrari, Russia e America temporeggiano. La Polonia ha paura: un terzo del suo territorio attuale prima della guerra era tedesco… Discutiamo in macchina dei possibili scenari politici e territoriali. Ronnie è sprofondato nel sedile posteriore e sembra disinteressato, come sempre. Poi, all’improvviso, si sporge in avanti, fa capolino con la testa fra i due sedili e in tutta tranquillità, senza segni di emozioni particolari dice: “La caduta del muro non è un fatto eccezionale. Fra qualche mese (siamo giá nel 1990) scadono i termini del trattato di Potsdam e le quattro super potenze (usa, Russia, Francia, Gran Bretagna n.d.a.) avrebbero dovuto rinegoziare l’assetto dell’Europa. Se la Russia non avesse permesso un percorso di pacificazione sarebbe scoppiata la guerra con conseguenze inimmaginabili”.


Rabbrividisco. Guardo Ronnie senza riuscire a pronunciare una parola. “Rifletti” mi dice tranquillo.
Ci sto riflettendo da vent’anni.

Passa il tempo. In ditta vengono assunti i primi colleghi di Berlino est e della regione del Brandenburgo. Agli imprenditori conviene. Una legge federale ha stabilito tariffe piú basse per i residenti nell’ex DDR. Sui posti di lavoro la convivenza non è facile. Gli ex-orientali ci guardano come privilegiati arroganti che per lo stesso lavoro guadagnano fino al trenta per cento in piú e gli occidentali guardano agli orientali come concorrenti sleali che conquistano un posto di lavoro dopo l’altro grazie alle loro paghe a prezzi stracciati.
Uno dei miei nuovi colleghi orientali, Dieter, non si tira indietro di fronte a nessuna discussione e, dal suo modo di argomentare, mi è subito chiaro che è stato militante del partito.
Discutiamo spesso di politica, soprattutto della politica di riunificazione delle due Germanie.
Un giorno mi butto e lo metto a confronto con l’idea che se la Russia non avesse permesso un percorso di pacificazione, lo scadere dei trattati di Potsdam avrebbe aperto la strada alla guerra.
Mi guarda con diffidenza.
Poi a fatica e centellinando le parole comincia a parlare scoprendo a mano a mano le sue carte.
“Fino giú ai quadri intermedi, dice, sapevamo tutti che lo Stato era sull’orlo della bancarotta e a tutti era chiaro che erano necessari cambiamenti radicali. Gli unici ad opporsi erano le teste di cemento (betonköpfe) della vecchia guardia stalinista e dei loro tirapiedi. Quando è arrivato Gorbatchow con la sua Perestroiska e Glasnost abbiamo sperato che l’ondata riformista raggiungesse anche Berlino (est). I gruppi di opposizione hanno continuato ad essere controllati ma la repressione si è allentata. Una parte notevole dell’apparato era per le riforme ma poi gli eventi sono precipitati. Le fughe di massa, le manifestazioni di Lipsia, Gorbatchow che avverte Honecker alle celebrazioni del quarantesimo anniversario della fondazione della repubblica democratica (“chi arriva tardi viene punito dalla storia” n.d.a.). Alla fine Honecker è stato costretto ad andarsene, ma era ormai troppo tardi. Ad un cambiamento eravamo pronti e pensavamo già ad uno Stato federale con la Germania dell’ovest, ma tutto sarebbe dovuto avvenire in tempi piú lunghi cosí da permettere una pari dignitá storica fra Germania est e ovest.
Poi, visto che ormai tutto era perduto, si è deciso in un pomeriggio di aprire il muro. È stata l’ultima vendetta del Politbüro nei confronti dell’occidente. Ecco, è stato il pensiero delle betonköpfe, allora gestitevi la patata bollente da soli”.

Sono passati vent’anni. Il proprietario della ditta dove lavoro adesso è berlinese da generazioni, sua moglie è greca, la direttrice è tedesca orientale ex membro del partito socialista di Honecker, lo chef del ristorante è rumeno, in altri reparti lavorano ragazzi e ragazze turche e polacche. A mezzogiorno alla mensa dei dipendenti c’è sempre un’alternativa halal per i colleghi di fede islamica. Ecco, nonostante la storia della “rivoluzione dal basso” che ha fatto crollare il muro di Berlino sia una bufala, il mondo va avanti. Muri e barriere crollano e termini di nazionalitá, culture o religioni diverse diventano una nota a piede di pagina del curriculum vitae di ognuno di noi.

Ovunque?
No, purtroppo non ovunque.

Guardo all’Italia dove i programmi televisivi sono una lunga serie di arene dentro le quali vomitare insulti contro tutti e contro tutto ció che non è uguale a noi. Dove la questione della razza e della religione si involvono in ragione di conflitto permanente. Un’Italia dove il cittadino che bussa allo sportello dell’ente pubblico è un soggetto fastidioso e importuno. L’Italia dove il malcostume politico, sociale e istituzionale sono norma di vita e il cuore mi si stringe pieno di amarezza.
Sará questa l’Italia che hanno sognato i nostri padri partigiani?
Sará questa l’Italia che hanno sognato gli studenti del 68’?
Sará questa l’Italia alla quale vogliamo venire associati individualmente quando viaggiamo in Europa e nel mondo?
In un’Europa e in un mondo che abbattono un muro dopo l’altro e un confine dopo l’altro, in Italia diamo spazio e visibilitá a chi promuove l’odio razziale e religioso, a chi santifica l’edonismo e il vizio e a chi fa della prostituzione fisica e intellettuale il motore della scalata sociale.
Che amarezza.

Mi risuonano nella mente le parole del Profeta:
“Molte nazioni passeranno presso questa città, e ognuno dirà all'altro: "Perché l'Eterno ha trattato così a questa città?”
(Geremia, 22; 8)
 

Stefano Comi

CernuscoInsieme non si assume nessuna responsabilità legata al presente comunicato

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