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11 Gennaio 1999: ciao Faber, poeta degli ultimi…

 

<<Ma come, non conosci Fabrizio?>>. Questa domanda m'investì, "novello" studente delle superiori, nei primi anni sessanta, quando comparvero, quasi clandestini, i primi dischi di Fabrizio (così si chiamava all'inizio). Era il compagno di banco, lo stesso che ti aveva fatto leggere Masters o Majakowski, a prestarti i suoi dischi. Erano canzoni sconosciute alle classifiche, alla televisione, alla radio. Canzoni-poesie, liriche da ricopiare sui fogli di quaderno, melodie di contrabbando ripetute dalle chitarre scordate dei compagni di scuola. Parlavano di prostitute, di disertori, di guerra, di morte. Le si ascoltava per pomeriggi interi, in quelle cerchie appassionate e infatuate di adolescenti che s'infiammavano alle prime poesie, come nell'Attimo fuggente di Peter Weir. Questi dischi, noi studenti, ce li passavamo l'un l'altro, fra la stupita meraviglia di chi fino allora era cresciuto con "L'edera", "Il pericolo numero uno" o "Tintarella di luna" in un panorama di musica leggera caratterizzato da un patetico confronto fra melodici e urlatori. Una di quelle sue magiche ballate cominciava così: "Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi / ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi". Poteva bastare quest'inizio per fulminare noi ragazzi bisognosi di poesia.

Ci innamoravamo subito dei suoi eroi malvisti, derelitti, splendenti di solitudine. Ridevamo dei suoi grotteschi bersagli, re sudicioni, borghesi ipocriti, giudici spietati, beghine pavide e la ferita emotive che quelle parole, che quelle ballate ci apriva nell'animo, corrispondeva all'intuizione che l'arte e la poesia fossero il vero mezzo per cambiare l'uomo nel e dal profondo. E c'innamoravamo del cuore di Faber (come era chiamato a Genova): un bellissimo cuore, il cuore dei grandi poeti, aperto al cielo, alle nuvole, alle donne che amano, ai soldati che muoiono, ai potenti che comprano, ai delinquenti che pagano. Dalle prostitute, dai carcerati e dagli emarginati cantati nelle sue prime ballate, Fabrizio, passò agli indiani d'America, agli umili morti di provincia di Spoon River, ai poveri cristi dei Vangeli apocrifi, agli anarchici più ideali che reali, ai barboni delle periferie della società, ai transessuali, ai lavavetri, a chiunque incarnasse la poesia della sconfitta. Persino del suo rapimento, patito insieme alla moglie Dori Ghezzi in Sardegna (sua terra, adottiva), seppe cantare (in Hotel Supramonte), a partire dalla percezione della debolezza dei suoi aguzzini, con una sensibilità che qualcuno, grossolanamente, giudicò ideologica, mentre era, allora e come sempre, solo e soltanto poetica. Nato ricco, e da una famiglia importante, fin da ragazzo aveva scelto la Genova dei vicoli  vicino al porto, quella dei reietti, dei pittori, degli esclusi. E dei cantautori. Conoscendolo, era facile intuire che la frattura giovanile con le sue origini familiari fosse di natura prima di tutto esistenziale che politica. Si sentiva profondamente mediterraneo, quasi un arabo di Genova, e nel suo capolavoro (Creuza de mä, in lingua genovese) era finalmente riuscito ad approdare ad un mondo sonoro gravido di spazio, di lentezza, di lontananza dalla frenesia malata, ridicola, spietata  del nostro tempo. E Creuza de mä è uno dei dischi che più mi hanno fatto sognare e riflettere sul dono della musica. Qui vi si trova la musica ascoltata per caso in strada, che sposa una complessità tecnica e una passione compositiva da musicista classico, una musica in cui si fondono i due mari di Fabrizio, la poesia e la rabbia, la sua Genova e la Sardegna (della quale bellezza era rimasto così abbagliato da innamorarsene perdutamente). Penso che Fabrizio fosse, da solo, un'intera isola sospesa tra i mari della dolcezza e della ribellione. Un porto di navi e lingue diverse, di marinai e donne misteriose, dove sbarcavano le sonorità di terre lontane e le parole dei cantautori francesi che tanto amava: un'isola percorsa da burrasche improvvise e da grandi calme. E dall'isola lui sapeva ascoltare il rumore del mare profondo e delle sue creature, dalle più dolci alle più feroci, dalle più umili alle più grandi, vittime e avventurieri ed essere sempre dalla parte di chi soffre e perde. Le sue canzoni sono state e sono un viatico contro ogni razzismo: hanno il coraggio e la passione di incontrare le diverse culture nel momento in cui cantano e raccontano, non soltanto quando sono piegate dal dolore e dalla necessità, con una dimensione del sacro che riporta al sentimento di pietà dell'uomo verso l'altro uomo. Una "profonda religiosità laica" investe la sua esperienza poetica con una religiosità fondata, appunto, sul rispetto incondizionato del dolore e della sofferenza ricordando che non c’è mai giustizia senza umanità. Ha tessuto la sua tela di tolleranza e di condivisione richiamandosi ai diritti delle persone; per questo, oggi, le sue canzoni sono più che mai attuali per vaccinare contro l’indifferenza, l'ipocrisia e l'egoismo della nostra società.

"Quando se ne va un poeta la terra piange" dice un proverbio africano. Fabrizio De André è stato un grande poeta della canzone, un artista che ha sempre tenuto lontano da sé la tentazione di mercato. Anche per questo De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di De André restano a brillare al sole di oggi come il primo giorno che sono nate. L'ascolto di quelle ballate, di quei versi, soprattutto di quella voce così profonda e tersa, è la grande compagnia che ci ha lasciato. È pochissimo se raffrontato alla mancanza fisica di questo nostro grande amico e fratello maggiore. È tantissimo se pensiamo a quanto lontano potrà arrivare la sua voce di lunga durata, lenta, veritiera, che ci darà conforto e sollievo quando non riusciremo più a sopportare il suono frenetico del nostro tempo.
 
Ciao Faber, amico fragile delle mie, delle nostre stagioni: che la tua anima riposi in Supramonte, o in Via del campo, o a Spoon River, o nel letto del fiume Sand Creek o dovunque una tua canzone abbia restituito bellezza e dignità agli uomini.

Gabriele Calvanelli
 

 

 


 

CernuscoInsieme non si assume nessuna responsabilità legata al presente comunicato

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